Memorial Miriam Sermoneta

Memorial Miriam Sermoneta

martedì 23 aprile 2013

Jury Livorati - Secondo classificato sezione racconti -




13 x 18

In questa foto c’è tutto mio padre.
Lo scatto ha quindici anni all’incirca, la stampa qualche giorno in meno. La qualità della carta e dello sviluppo erano già abbastanza buone da consentire una conservazione ottimale del colore, ma a guardare bene si nota comunque che le tonalità si sono smorzate. O forse è solo perché io c’ero e so come erano i colori in quel momento.
Al centro dell’immagine c’è mio padre, ovviamente. Si chiamava Francesco, un nome comune, da uomo medio. Di cognome faceva Ferrari ed anche quello era di una banalità assoluta. Commesso viaggiatore, o rappresentante come piaceva dire a me, o agente come li chiamano adesso: una professione anonima, come lui. Acqua tiepida.
Nella foto indossa una camicia azzurra a sottili righe bianche, una cravatta scura ed una giacca grigio chiaro. Cambiavano i colori, ma l’abbigliamento era lo stesso ogni giorno, anche il sabato, anche la sera a cena, anche per le ferie. I vestiti mi parlano del suo lavoro, del suo senso dell’ordine, della sua abitudinarietà, della sua pulizia. Non ha mai capito perché io andassi al lavoro in felpa sportiva, ma non me l’ha mai rimproverato.
Ha un sorriso appena abbozzato, un’increspatura delle labbra ad ammorbidire il volto rugoso dalla pelle olivastra. Gli occhi non sorridono, dicono qualcos’altro: non è tristezza, ma stanchezza. Sembrano piccoli, stretti, le palpebre calanti. Era appena rincasato da un viaggio di due giorni, mentre lo ritraevo. Mi voleva un bene dell’anima, me lo lasciava intendere almeno il doppio delle volte che lo diceva apertamente. Trovava la forza per un segno di affetto, un semplice sorriso, pur essendo esausto dopo aver guidato a lungo.
Ha una vistosa cicatrice sulla fronte, poco sopra il sopracciglio sinistro. Ne andava fiero, sebbene avesse rischiato la vita procurandosela. Lo raccontava a tutti, uno degli aneddoti che non mancavano a qualunque cena tra amici o parenti, ogni volta con le stesse parole. Passeggiavano al mare, lui e mia madre, prima che io nascessi. La giornata era ventosa, l’acqua agitata. Tra le onde avevano scorto una ragazza in difficoltà, che urlava aiuto, e mio padre si era tuffato senza la minima esitazione. Le onde l’avevano travolto prima che potesse avvicinarsi alla donna e l’avevano scagliato con violenza contro gli scogli. Non aveva perso i sensi e si era aggrappato ad una roccia sporgente, il che gli aveva salvato la vita, ma se non fosse stato per i bagnini che arrivarono in soccorso di entrambi sarebbe annegato assieme alla ragazza che aveva cercato di salvare. Non aveva mai più messo piede in acqua, dopo quel giorno. Neanche in piscina.
Nella parte sinistra della foto si intravede la sua vecchia auto parcheggiata in garage: una Renault 4 rossa, fuori moda già allora, che per quanto ne so custodiva gelosamente dal 1969. Non era l’auto che usava per lavoro, quella non era altro che uno strumento. La Renault era come un’amica per lui, me l’aveva confessato lui stesso, ed era per quel motivo che non l’aveva mai venduta, spendendo in manutenzione, negli anni, più di quanto gli sarebbe costata un’auto nuova. A volte litigava con mia madre, che si vergognava di dover girare in paese con quel catorcio, ma non si era mai arreso.
Sullo sfondo c’è la porta di ingresso di casa nostra. Sulla destra, una targa rettangolare in ottone con scritto il nostro cognome a caratteri cubitali, tanto che riesco a scorgerlo anche in questa inquadratura. Il cognome è tutto, mi diceva mio padre. Porta avanti il nostro cognome, la nostra linea, e combatti per dargli onore.
Lui non ci era riuscito, mi diceva, ma si sentiva in pace perché ci aveva provato, ogni singolo giorno. E perché vedeva in me i semi di qualcosa di grande ed importante e il solo fatto di avermi messo al mondo lo faceva sentire orgoglioso. Non ho mai dato importanza a quelle parole, ma di tanto in tanto le riconosco nel senso di colpa o nella sensazione di inadeguatezza che mi colgono nei giorni in cui tiro le somme parziali della mia vita.
Mia madre è poco più che uno spettro sul bordo destro della fotografia. Si era accorta di essere nel campo dell’obiettivo ed aveva cercato di ritirarsi all’ultimo momento, invano: era stata catturata in movimento, una macchia di colore senza contorni definiti, nella quale tuttavia si riconoscono gli occhi rivolti alla macchina fotografica e la bocca distorta mentre cercava di dirmi di aspettare. Anche questo particolare racconta parte della vita di mio padre: un matrimonio accidentato, una relazione piena di incomprensioni, un rapporto mai del tutto chiaro con  mia madre. Mi aveva rivelato di sentirsi come un fantasma in giro per casa, una volta, ed eccoli nella fotografia, lui e mia madre, a parti invertite. Avrebbero dovuto separarsi, lo dico da figlio e lo dico con dolore, ma la vita va così.
Ci sono anche io nella foto, pur avendola scattata. Per errore ho lasciato che la punta del dito medio della mano sinistra sporgesse davanti all’obiettivo ed ecco parte di me, parte della vita di mio padre, l’eredità vivente che ha lasciato nel mondo: un alone rosa acceso in un angolo. Ho preso da lui molto più di quanto immaginassi fino a prima che morisse e solo oggi, solo nei momenti come questo, in cui lascio affiorare i ricordi e le emozioni, scopro quanto gli assomiglio.
In questa foto, in questo piccolo rettangolo di carta lucida, c’è anche la fine di mio padre. L’abbiamo scelta come immagine destinata a conservarne la memoria nella cappelletta al cimitero.
L’ha proposta mia madre, non so se perché avesse scorto gli stessi particolari che vi trovo io, o per il volto giovanile che ha mio padre. In ogni caso, ogni volta che vado a trovarlo è come se ripercorressi assieme a lui le tappe della sua esistenza, raggruppate in un unico fotogramma che accende nella mia mente brevi sequenze come di un vecchio film. Una sola fotografia che colma il vuoto rimasto tra le date di nascita e di morte applicate al freddo marmo.
Un’intera esistenza in un 13x18.

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