13 x 18
In
questa foto c’è tutto mio padre.
Lo
scatto ha quindici anni all’incirca, la stampa qualche giorno in meno. La
qualità della carta e dello sviluppo erano già abbastanza buone da consentire
una conservazione ottimale del colore, ma a guardare bene si nota comunque che
le tonalità si sono smorzate. O forse è solo perché io c’ero e so come erano i
colori in quel momento.
Al
centro dell’immagine c’è mio padre, ovviamente. Si chiamava Francesco, un nome
comune, da uomo medio. Di cognome faceva Ferrari ed anche quello era di una
banalità assoluta. Commesso viaggiatore, o rappresentante come piaceva dire a
me, o agente come li chiamano adesso: una professione anonima, come lui. Acqua
tiepida.
Nella
foto indossa una camicia azzurra a sottili righe bianche, una cravatta scura ed
una giacca grigio chiaro. Cambiavano i colori, ma l’abbigliamento era lo stesso
ogni giorno, anche il sabato, anche la sera a cena, anche per le ferie. I
vestiti mi parlano del suo lavoro, del suo senso dell’ordine, della sua
abitudinarietà, della sua pulizia. Non ha mai capito perché io andassi al
lavoro in felpa sportiva, ma non me l’ha mai rimproverato.
Ha
un sorriso appena abbozzato, un’increspatura delle labbra ad ammorbidire il
volto rugoso dalla pelle olivastra. Gli occhi non sorridono, dicono
qualcos’altro: non è tristezza, ma stanchezza. Sembrano piccoli, stretti, le
palpebre calanti. Era appena rincasato da un viaggio di due giorni, mentre lo
ritraevo. Mi voleva un bene dell’anima, me lo lasciava intendere almeno il
doppio delle volte che lo diceva apertamente. Trovava la forza per un segno di
affetto, un semplice sorriso, pur essendo esausto dopo aver guidato a lungo.
Ha
una vistosa cicatrice sulla fronte, poco sopra il sopracciglio sinistro. Ne
andava fiero, sebbene avesse rischiato la vita procurandosela. Lo raccontava a
tutti, uno degli aneddoti che non mancavano a qualunque cena tra amici o parenti,
ogni volta con le stesse parole. Passeggiavano al mare, lui e mia madre, prima
che io nascessi. La giornata era ventosa, l’acqua agitata. Tra le onde avevano
scorto una ragazza in difficoltà, che urlava aiuto, e mio padre si era tuffato
senza la minima esitazione. Le onde l’avevano travolto prima che potesse
avvicinarsi alla donna e l’avevano scagliato con violenza contro gli scogli.
Non aveva perso i sensi e si era aggrappato ad una roccia sporgente, il che gli
aveva salvato la vita, ma se non fosse stato per i bagnini che arrivarono in
soccorso di entrambi sarebbe annegato assieme alla ragazza che aveva cercato di
salvare. Non aveva mai più messo piede in acqua, dopo quel giorno. Neanche in
piscina.
Nella
parte sinistra della foto si intravede la sua vecchia auto parcheggiata in
garage: una Renault 4 rossa, fuori moda già allora, che per quanto ne so
custodiva gelosamente dal 1969. Non era l’auto che usava per lavoro, quella non
era altro che uno strumento. La Renault era come un’amica per lui, me l’aveva
confessato lui stesso, ed era per quel motivo che non l’aveva mai venduta,
spendendo in manutenzione, negli anni, più di quanto gli sarebbe costata
un’auto nuova. A volte litigava con mia madre, che si vergognava di dover
girare in paese con quel catorcio, ma non si era mai arreso.
Sullo
sfondo c’è la porta di ingresso di casa nostra. Sulla destra, una targa
rettangolare in ottone con scritto il nostro cognome a caratteri cubitali,
tanto che riesco a scorgerlo anche in questa inquadratura. Il cognome è tutto,
mi diceva mio padre. Porta avanti il nostro cognome, la nostra linea, e
combatti per dargli onore.
Lui
non ci era riuscito, mi diceva, ma si sentiva in pace perché ci aveva provato,
ogni singolo giorno. E perché vedeva in me i semi di qualcosa di grande ed
importante e il solo fatto di avermi messo al mondo lo faceva sentire
orgoglioso. Non ho mai dato importanza a quelle parole, ma di tanto in tanto le
riconosco nel senso di colpa o nella sensazione di inadeguatezza che mi colgono
nei giorni in cui tiro le somme parziali della mia vita.
Mia
madre è poco più che uno spettro sul bordo destro della fotografia. Si era
accorta di essere nel campo dell’obiettivo ed aveva cercato di ritirarsi
all’ultimo momento, invano: era stata catturata in movimento, una macchia di
colore senza contorni definiti, nella quale tuttavia si riconoscono gli occhi
rivolti alla macchina fotografica e la bocca distorta mentre cercava di dirmi
di aspettare. Anche questo particolare racconta parte della vita di mio padre:
un matrimonio accidentato, una relazione piena di incomprensioni, un rapporto
mai del tutto chiaro con mia madre. Mi
aveva rivelato di sentirsi come un fantasma in giro per casa, una volta, ed
eccoli nella fotografia, lui e mia madre, a parti invertite. Avrebbero dovuto
separarsi, lo dico da figlio e lo dico con dolore, ma la vita va così.
Ci
sono anche io nella foto, pur avendola scattata. Per errore ho lasciato che la
punta del dito medio della mano sinistra sporgesse davanti all’obiettivo ed
ecco parte di me, parte della vita di mio padre, l’eredità vivente che ha
lasciato nel mondo: un alone rosa acceso in un angolo. Ho preso da lui molto
più di quanto immaginassi fino a prima che morisse e solo oggi, solo nei
momenti come questo, in cui lascio affiorare i ricordi e le emozioni, scopro
quanto gli assomiglio.
In
questa foto, in questo piccolo rettangolo di carta lucida, c’è anche la fine di
mio padre. L’abbiamo scelta come immagine destinata a conservarne la memoria
nella cappelletta al cimitero.
L’ha
proposta mia madre, non so se perché avesse scorto gli stessi particolari che
vi trovo io, o per il volto giovanile che ha mio padre. In ogni caso, ogni
volta che vado a trovarlo è come se ripercorressi assieme a lui le tappe della
sua esistenza, raggruppate in un unico fotogramma che accende nella mia mente
brevi sequenze come di un vecchio film. Una sola fotografia che colma il vuoto
rimasto tra le date di nascita e di morte applicate al freddo marmo.
Un’intera
esistenza in un 13x18.
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