Ardea
Questa mattina mi sono svegliata completamente diversa.
Ci ho messo un po’ a capirlo.
Inizialmente mi è sembrato di essere tornata indietro nel
tempo, di nuovo magrissima e giovane; mi
sono sentita leggera e forte, con un bisogno irrefrenabile di muovermi. La
stanza mi è parsa molto più grande del solito.
Ho spaziato con lo
sguardo intorno a me ed ho riconosciuto ogni singolo oggetto, anche se
ingigantito: il mio letto sfatto, il comò con i panni piegati da riporre nei
cassetti, i due comodini coperti da pile di libri, l’armadio alto fino al
soffitto, la poltrona con sopra appoggiati i miei jeans preferiti.
Il cuore ha iniziato a battere forte, l’ho sentito
rimbombare nelle orecchie ed ho avuto paura di morire. Poi gli occhi si sono
posati sulla finestra aperta e sono stata percorsa da un brivido di eccitazione.
Ho spiccato un salto e mi sono ritrovata sul davanzale.
Sono passati poco meno di dieci minuti da allora.
Me ne sto ancora qui, sul davanzale. C’è una leggera
brezza, sta albeggiando e tutto fa presupporre che sarà anche questa una
splendida giornata di maggio, come lo è stata ieri e ieri l’altro. La primavera
si sente nell’aria carica dei profumi dei fiori appena sbocciati e dell’erba
tagliata da poco.
Ogni tanto guardo giù e stranamente non provo nessun
senso di vertigine. Poi rivolgo lo sguardo in alto e freno a stento l’impulso
di lanciarmi nel vuoto.
Cosa mi viene in mente? Di suicidarmi? Non l’ho fatto
cinque anni fa, quando Arnaldo è morto lasciandomi sola, perché dovrei adesso?
Non mi sento
disperata, tutt’altro: ho dentro una carica di energia che scalpita per uscire
fuori. Faccio fatica a trattenermi.
Oggi poi è una giornata importante perché viene a
trovarmi mia figlia con la piccola
Caterina che non vedo l’ora di riabbracciare.
Non ho motivo di uccidermi, non più.
Tra due mesi compirò cinquant’anni ed ho ancora tanti
progetti da realizzare.
Quindi basta Franca! E’ ora che scendi dal parapetto e ti
dai da fare per iniziare bene questo nuovo giorno.
Ma, nonostante i buoni propositi, mi lascio cadere giù …
E’ stato un attimo, non sono riuscita a tornare indietro, non sono stata capace
di evitarlo, sto precipitando nel vuoto, ho il cuore in gola, la consapevolezza
della fine prossima, gli occhi incollati sull’asfalto che si fa sempre più
vicino.
Eppure un istante dopo inaspettatamente risalgo.
E’ bastato un movimento perfetto delle braccia, come un
battito d’ali, che mi ha riportata in
alto. Sto volando e capisco che è un sogno. Non può che essere un sogno. Guardo i miei arti e scopro che sono in
effetti due splendide ali; sto volando davvero! Sono un uccello, un bellissimo
uccello, lo capisco dal mio volo elegante e maestoso e dal folto piumaggio.
Provo a gridare ma ne esce fuori uno strano verso breve, cadenzato, che mi è
familiare. Atterro sul mio davanzale al terzo piano.
Il sole è una palla infuocata che fa capolino dalle
montagne e dentro casa è buio.
Ci metto un po’ ad abituarmi all’oscurità interna.
Punto dritta allo specchio a parete, voglio scoprire che
uccello sono diventata ed ho la conferma di ciò che avevo istintivamente intuito:
sono un airone, uno splendido esemplare di àrdea cinerea, alto più o meno un metro, snello e
aggraziato.
Il piumaggio, oltre che soffice, è di un delicato color
grigio che si fa bianco sul collo e sul capo. Da quest’ultimo partono due
strisce nere che, passando sugli occhi, si riuniscono sopra la nuca terminando
in tre lunghe penne nere a ciuffo che ricadono all’indietro. Il nero, che si
ripete sulle remiganti primarie e in macchie sul collo, spicca come carbone nella cenere.
Non potevo essere uccello più nobile e affascinante. Li
ho osservati a lungo nel corso degli anni, camminare sui campi di fronte casa,
sempre in piccoli gruppi; ho ammirato il loro avanzare lento e compassato,
continuamente vigili, sempre all’erta.
In genere arrivano con le rondini per annunciare la primavera. Vengono nei
nostri boschi a ridosso delle spiagge per nidificare e invano ho tentato di
scorgere i loro nidi, di catturare un movimento dei loro piccoli. La loro
timidezza li rende schivi, la loro paura li rende prudenti.
Continuo ad osservare incredula ciò che sono diventata.
Lo specchio, oltre alla mia immagine, riflette l’enorme
letto matrimoniale che ho alle spalle. Sul letto ci sono io. Io nelle mie
sembianze umane. Sto dormendo.
Che bizzarria questo sogno, è un susseguirsi di gioie e
paure.
E sembra non dovere finire mai.
Mi avvicino e contemplo il mio corpo di donna. Dormo
nella solita posizione supina, infilata sotto le coperte fino al petto, le
braccia distese lungo i fianchi, con un’indefinibile espressione sul volto. La
bocca è semiaperta. Sembro morta.
In effetti non respiro.
Anche il mio alito animale si arresta, ed è come se
un’esplosione interna raggiungesse il mio cervello di uccello, rimbombando
nella piccola scatola cranica. Un’esplosione interna che mi rende momentaneamente
sorda. Sono un’ ardea cinerea
completamente sorda che fissa il corpo di ciò che era e che non sarà più. Sono
paralizzata dal terrore. Voglio svegliarmi. Perché non mi sveglio? Quanto deve
durare ancora questo sogno? Ne ho avuto abbastanza.
Non so quanto tempo rimango ferma accanto al mio corpo
senza vita. Non riesco a distogliere lo sguardo dal quel mio volto di pietra.
La fissità della morte mi gela l’anima. Riprendo ad udire ogni suono, ogni
voce, ogni rumore. Oltre la camera da letto sento la chiave che gira nella
serratura ed apre la porta d’ingresso.
“Mamma, sono Rita! Mamma, stai dormendo?”
E’ mia figlia. E’ venuta a prendermi. Ritorno con un
salto sul davanzale, cerco di rimanere nascosta dietro le tende che arrivano
fino al pavimento. Vorrei impedirle di vedere quello che vedo io, vorrei
impedirle questa macabra scoperta ma nulla posso contro il suo procedere svelto verso la verità.
Tua mamma è morta tesoro mio. Non fare entrare la
bambina, non farle vedere la nonna morta. Mi viene assurdamente da ridere al
pensiero che anche adesso, benché uccello,
sia comunque una nonna: è così che viene volgarmente chiamato l’airone
cenerino. Nonna, o sgarza, ma io preferisco “nonna”.
Vieni Caterina, vieni dalla nonna.
Mia figlia ha spalancato la porta, guarda la mia me
distesa, sbarra gli occhi dall’orrore, subito comprende. Sa che me ne sono
andata. Sa che non ci sono più.
Ma io esisto ancora! Sono qui. Ti sto guardando. Vieni a
svegliarmi!
Invece lei si lancia sul mio corpo inerte, lo scuote, piange,
si dispera. Ed io e le mie penne ci agitiamo insieme.
Sull’uscio della camera c’è Caterina che mi osserva. Non
il mio corpo umano. Osserva me, me uccello.
Nel blu dei suoi occhi intuisco la sua consapevolezza.
Lei sa.
“Mamma, guarda! Un uccello enorme!”
Mia figlia si gira verso di me, si accorge della mia
presenza e grida, grida con tutto il fiato che ha in gola.
Grida per sua madre, grida per me. Non ce la faccio a
rimanere lì, volo via.
Raggiungo un’altezza prodigiosa, il mio volare è
magnifico, pieno di grazia solenne e man mano che avanzo sento svaporare
l’angoscia terrena. Nel cielo non ci sono rumori, tutto è silenzioso, fresco e
intangibile.
Sono arrivata al mare, lo vedo sotto di me e sembra una
distesa di carta argentata.
Il ritmo del mio battere d’ali rallenta, sono un tutt’uno
con l’aria e le nuvole.
Sono felice.
Avrei voluto essere un uccello, avrei voluto poter
volare.
A volte ho sospettato di esserlo stata in una vita precedente e invece stavo solo
prevedendo il futuro, dovevo solo aspettare la prossima esistenza per vedere
realizzata questa mia aspirazione.
Ho planato per ore, giorni.
Adesso so che non è un sogno.
Ne ho avuto la conferma questa mattina, quando ho
assistito al mio funerale.
E’ stato tutto come avevo chiesto che fosse: la musica,
la cremazione, il discorso degli amici a Campo Imperatore, le mie ceneri
gettate al vento, le lacrime di chi mi ha amato, il rimorso di chi mi ha fatto
soffrire, il rimpianto di chi già da tempo mi aveva perduto.
Ho salutato i miei cari con un canto struggente,
aleggiando in tondo sopra di loro.
Ho visto le loro facce rivolte in alto, con le mani sulla
fronte a proteggere gli occhi per guardarmi.
Ho detto loro addio e sono tornata al mare.
Non so a quale anima ho rubato questo corpo, non so per quanto
tempo rammenterò ancora chi ero.
Più passano i giorni e più diventa confuso il ricordo.
Più passano i giorni e più mi sento felice.
E so solo che io …
io non voglio più essere i o.
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