Memorial Miriam Sermoneta

Memorial Miriam Sermoneta

mercoledì 24 aprile 2013

Paola Lena - menzione d’onore sezione racconti -





Ardea

Questa mattina mi sono svegliata completamente diversa.
Ci ho messo un po’ a capirlo.
Inizialmente mi è sembrato di essere tornata indietro nel tempo, di nuovo magrissima e giovane;  mi sono sentita leggera e forte, con un bisogno irrefrenabile di muovermi. La stanza mi è parsa molto più grande del solito.
Ho spaziato con  lo sguardo intorno a me ed ho riconosciuto ogni singolo oggetto, anche se ingigantito: il mio letto sfatto, il comò con i panni piegati da riporre nei cassetti, i due comodini coperti da pile di libri, l’armadio alto fino al soffitto, la poltrona con sopra appoggiati i miei jeans preferiti.
Il cuore ha iniziato a battere forte, l’ho sentito rimbombare nelle orecchie ed ho avuto paura di morire. Poi gli occhi si sono posati sulla finestra aperta e sono stata percorsa da un brivido di eccitazione. Ho spiccato un salto e mi sono ritrovata sul davanzale.
Sono passati poco meno di dieci minuti da allora.
Me ne sto ancora qui, sul davanzale. C’è una leggera brezza, sta albeggiando e tutto fa presupporre che sarà anche questa una splendida giornata di maggio, come lo è stata ieri e ieri l’altro. La primavera si sente nell’aria carica dei profumi dei fiori appena sbocciati e dell’erba tagliata da poco.
Ogni tanto guardo giù e stranamente non provo nessun senso di vertigine. Poi rivolgo lo sguardo in alto e freno a stento l’impulso di lanciarmi nel vuoto.
Cosa mi viene in mente? Di suicidarmi? Non l’ho fatto cinque anni fa, quando Arnaldo è morto lasciandomi sola, perché dovrei adesso?
Non  mi sento disperata, tutt’altro: ho dentro una carica di energia che scalpita per uscire fuori. Faccio fatica a trattenermi.
Oggi poi è una giornata importante perché viene a trovarmi mia figlia con la piccola  Caterina che non vedo l’ora di riabbracciare.
Non ho motivo di uccidermi, non più.
Tra due mesi compirò cinquant’anni ed ho ancora tanti progetti da realizzare.
Quindi basta Franca! E’ ora che scendi dal parapetto e ti dai da fare per iniziare bene questo nuovo giorno.
Ma, nonostante i buoni propositi, mi lascio cadere giù … E’ stato un attimo, non sono riuscita a tornare indietro, non sono stata capace di evitarlo, sto precipitando nel vuoto, ho il cuore in gola, la consapevolezza della fine prossima, gli occhi incollati sull’asfalto che si fa sempre più vicino.
Eppure un istante dopo inaspettatamente risalgo.
E’ bastato un movimento perfetto delle braccia, come un battito d’ali, che mi ha riportata  in alto. Sto volando e capisco che è un sogno. Non può che essere un sogno.  Guardo i miei arti e scopro che sono in effetti due splendide ali; sto volando davvero! Sono un uccello, un bellissimo uccello, lo capisco dal mio volo elegante e maestoso e dal folto piumaggio. Provo a gridare ma ne esce fuori uno strano verso breve, cadenzato, che mi è familiare. Atterro sul mio davanzale al terzo piano.
Il sole è una palla infuocata che fa capolino dalle montagne e dentro casa è buio.
Ci metto un po’ ad abituarmi all’oscurità interna.
Punto dritta allo specchio a parete, voglio scoprire che uccello sono diventata ed ho la conferma di ciò che avevo istintivamente intuito: sono un airone, uno splendido esemplare di àrdea  cinerea, alto più o meno un metro, snello e aggraziato.
Il piumaggio, oltre che soffice, è di un delicato color grigio che si fa bianco sul collo e sul capo. Da quest’ultimo partono due strisce nere che, passando sugli occhi, si riuniscono sopra la nuca terminando in tre lunghe penne nere a ciuffo che ricadono all’indietro. Il nero, che si ripete sulle remiganti primarie e in macchie sul collo,  spicca come carbone nella cenere.
Non potevo essere uccello più nobile e affascinante. Li ho osservati a lungo nel corso degli anni, camminare sui campi di fronte casa, sempre in piccoli gruppi; ho ammirato il loro avanzare lento e compassato, continuamente  vigili, sempre all’erta. In genere arrivano con le rondini per annunciare la primavera. Vengono nei nostri boschi a ridosso delle spiagge per nidificare e invano ho tentato di scorgere i loro nidi, di catturare un movimento dei loro piccoli. La loro timidezza li rende schivi, la loro paura li rende prudenti.
Continuo ad osservare incredula ciò che sono diventata.
Lo specchio, oltre alla mia immagine, riflette l’enorme letto matrimoniale che ho alle spalle. Sul letto ci sono io. Io nelle mie sembianze umane. Sto dormendo.
Che bizzarria questo sogno, è un susseguirsi di gioie e paure.
E sembra non dovere finire mai.
Mi avvicino e contemplo il mio corpo di donna. Dormo nella solita posizione supina, infilata sotto le coperte fino al petto, le braccia distese lungo i fianchi, con un’indefinibile espressione sul volto. La bocca è semiaperta. Sembro morta.
In effetti non respiro.
Anche il mio alito animale si arresta, ed è come se un’esplosione interna raggiungesse il mio cervello di uccello, rimbombando nella piccola scatola cranica. Un’esplosione interna che mi rende momentaneamente sorda. Sono un’ ardea  cinerea completamente sorda che fissa il corpo di ciò che era e che non sarà più. Sono paralizzata dal terrore. Voglio svegliarmi. Perché non mi sveglio? Quanto deve durare ancora questo sogno? Ne ho avuto abbastanza.
Non so quanto tempo rimango ferma accanto al mio corpo senza vita. Non riesco a distogliere lo sguardo dal quel mio volto di pietra. La fissità della morte mi gela l’anima. Riprendo ad udire ogni suono, ogni voce, ogni rumore. Oltre la camera da letto sento la chiave che gira nella serratura ed apre la porta d’ingresso.
“Mamma, sono Rita! Mamma, stai dormendo?”
E’ mia figlia. E’ venuta a prendermi. Ritorno con un salto sul davanzale, cerco di rimanere nascosta dietro le tende che arrivano fino al pavimento. Vorrei impedirle di vedere quello che vedo io, vorrei impedirle questa macabra scoperta ma nulla posso contro il suo procedere  svelto verso la verità.
Tua mamma è morta tesoro mio. Non fare entrare la bambina, non farle vedere la nonna morta. Mi viene assurdamente da ridere al pensiero che anche adesso, benché uccello,  sia comunque una nonna: è così che viene volgarmente chiamato l’airone cenerino. Nonna, o sgarza, ma io preferisco “nonna”.
Vieni Caterina, vieni dalla nonna.
Mia figlia ha spalancato la porta, guarda la mia me distesa, sbarra gli occhi dall’orrore, subito comprende. Sa che me ne sono andata. Sa che non ci sono più.
Ma io esisto ancora! Sono qui. Ti sto guardando. Vieni a svegliarmi!
Invece lei si lancia sul mio corpo inerte, lo scuote, piange, si dispera. Ed io e le mie penne ci agitiamo insieme.
Sull’uscio della camera c’è Caterina che mi osserva. Non il mio corpo umano. Osserva me, me uccello.  Nel blu dei suoi occhi intuisco la sua consapevolezza.
Lei sa.
“Mamma, guarda! Un uccello enorme!”
Mia figlia si gira verso di me, si accorge della mia presenza e grida, grida con tutto il fiato che ha in gola.
Grida per sua madre, grida per me. Non ce la faccio a rimanere lì, volo via.
Raggiungo un’altezza prodigiosa, il mio volare è magnifico, pieno di grazia solenne e man mano che avanzo sento svaporare l’angoscia terrena. Nel cielo non ci sono rumori, tutto è silenzioso, fresco e intangibile.
Sono arrivata al mare, lo vedo sotto di me e sembra una distesa di carta argentata.
Il ritmo del mio battere d’ali rallenta, sono un tutt’uno con l’aria e le nuvole.
Sono felice.
Avrei voluto essere un uccello, avrei voluto poter volare.
A volte ho sospettato di esserlo stata  in una vita precedente e invece stavo solo prevedendo il futuro, dovevo solo aspettare la prossima esistenza per vedere realizzata questa mia aspirazione.
Ho planato per ore, giorni.
Adesso so che non è un sogno.
Ne ho avuto la conferma questa mattina, quando ho assistito al mio funerale.
E’ stato tutto come avevo chiesto che fosse: la musica, la cremazione, il discorso degli amici a Campo Imperatore, le mie ceneri gettate al vento, le lacrime di chi mi ha amato, il rimorso di chi mi ha fatto soffrire, il rimpianto di chi già da tempo mi aveva perduto.
Ho salutato i miei cari con un canto struggente, aleggiando in tondo sopra di loro.
Ho visto le loro facce rivolte in alto, con le mani sulla fronte a proteggere gli occhi per guardarmi.
Ho detto loro addio e sono tornata al mare.
Non so a quale anima ho rubato questo corpo, non so per quanto tempo rammenterò ancora chi ero.
Più passano i giorni e più diventa confuso il ricordo.
Più passano i giorni e più mi sento felice.
E so solo che  io … io non voglio più essere i o.   

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