Memorial Miriam Sermoneta

Memorial Miriam Sermoneta

martedì 23 aprile 2013

Nadia De Stefano - Terza classificata sezione racconti -




Libera scelta

Comincia a nevicare.
Adoro guardare i fiocchi cadere sulle cose.
Osservo la città da questa finestra dell’undicesimo piano, le persone in strada sembrano piccole formiche indaffarate, si muovono in modo strano sotto la neve, quasi indispettite.
Io invece, vorrei essere per strada e fare come mia abitudine in questa stagione, alzare la testa al cielo e farmi poggiare la neve sul viso, sentirla sciogliersi al contatto caldo e assaporare il suo non sapore.
La mia stanza è al buio ma, se solo aprissi la porta che dà sul corridoio, entrerebbe la luce fredda dei neon della corsia, sentirei le voci delle infermiere di turno e quell’odore che hanno tutti gli ospedali: un misto di pulito e disinfettante.
Preferisco stare al buio e guardare la neve posarsi sulla città.
Ero scappata da lei qualche anno fa’ e per pura ironia i miei genitori hanno deciso di farmi curare proprio qui.  
Qui c’è il “Dottore” che conosce i misteri che si celano dietro il mio disturbo alimentare.
Qui nessuno chiama le cose con il nome che hanno, probabilmente anch’io ho già cambiato nome.
Meglio guardare la neve.
Adesso le strade sono rivestite da una sottile patina bianca e i lampioni riflettono la loro luce amplificando l’effetto Inverno.
Tra pochi giorni sarà il mio compleanno, mi dicono che sono pochi i miei anni.
Già!
Sono sempre troppo giovane: giovane per l’amore, giovane per il lavoro, giovane per capire, troppo giovane per morire.
A questo mi dicono vado incontro se non smetto di vomitare. Lo so!
Sono giovane ma non stupida.
Il grande Dottore, che dovrebbe curarmi, è un pomposo signore di mezza età, che probabilmente non conosce nulla del mondo che vivo, si muove per l’ospedale come fosse il padrone e tratta come caccole le infermiere.
Il grande dottore che mi dà dei farmaci per curare l’anoressia. Io i farmaci non li prendo … la maggior parte finisce nel water.
Sono sedativi, antidepressivi, schifezze simili che non farebbero che rincoglionirmi e poi mi fa la paternale ogni volta che viene in stanza.
Se fossi sua figlia, mi ucciderei più velocemente di come sto facendo.
E poi c’è la psicologa.
Donna!
La tattica è comprensibile, chi meglio di una donna può entrare nella mente di un’altra donna?
Stronzate!
Si siede nella sedia vicino al mio letto, mi chiede se ho mangiato e poi comincia a spararmi domande alle quali io, sinceramente, rispondo sempre con bugie.
E’ già la quarta che vedo e sembra che abbiano frequentato tutte la stessa facoltà: stesse domande
senza senso, stessa posa quando si siedono, stessi vestiti di fattura pessima e poi la voce … Studiata, calcolata, perfetta.
Insopportabile!
Oggi ha perso la pazienza con me, dopo la mia ennesima bugia come risposta, si è alzata indispettita e mi ha detto che non poteva continuare a farsi prendere in giro così.
In quel momento l’ho amata!
Ormai ci sono più di cinque centimetri di neve e le macchine camminano piano per non sbandare.
Domani sarà una giornata di visita per i miei, sempre che riescano a mettersi d’accordo sugli orari.
“… sai tra il lavoro, gli appuntamenti le serate al club"...
Troppo impegnati!
Allora statevene in casa!
Non ho bisogno di voi, sono anni ormai che non vi chiedo più nulla e se non fosse stato per quell’impicciona della mia vicina di casa, probabilmente, vi avrei rivisto al mio funerale.
Invece è andato tutto storto e adesso sono inchiodata qui in quest’ospedale, in questa città che non amo.
Sono le tre del mattino ed è appena arrivata un’ambulanza, probabilmente ci sarà un altro ospite qui a breve, sento le infermiere in corridoio agitarsi.
Entrano nella mia stanza e preparano il letto accanto al mio, almeno stanotte accadrà qualcosa di diverso.
Arrivano con la lettiga, sopra c’è una ragazza che avrà circa la mia età, e dai discorsi che sento, anche lei avrà avuto una vicina troppo zelante.
Ha due flebo attaccate alle braccia sottili … molto più delle mie.
I capelli neri e lunghi gli coprono il volto, è pallida e non dà segni di vita, ma respira, altrimenti non sarebbe qui, ma qualche piano più sotto, a temperature più basse.
Gli attaccano il monitor per le pulsazioni, il suo cuore da tenere sotto controllo.
Il mio aveva lo stesso suono quando sono arrivata.
Resto a guardarla per un po’ e mi viene da chiedermi quale potrebbe essere la sua storia.
Mi addormento e quando mi sveglio lei, è girata verso di me e mi guarda con gli occhi di chi, per la prima volta, si vede riflessa allo specchio.
Mi chiamo Giorgia le dico e lei “Simona”, mi sorride.
La sua prima domanda è: Quanto pesi?
Trentasei chili le rispondo e tu?
Trentatré e quattrocento.
Sorride ancora, ma c’è dell’amaro che esce.
Arriva la psicologa, per fortuna non è per me, mi giro dall’altra parte e faccio finta di nulla.
Conosco le domande e so già che anche Simona non darà le risposte che lei vorrebbe.
Così è!
Quando lei va via, prendo su il mio campionario di flebo e mi siedo sul bordo del suo letto, mi racconta la sua storia.
Ventiquattro anni, famiglia benestante, divorzio dei suoi, nuova famiglia per il padre, nuovo compagno per la madre … sola!
OPS … stesso copione!
Ha cominciato così solo per farsi notare e la cosa gli è sfuggita di mano, poi la mano ha trovato la bocca e le dita han trovato la gola.
Vomita anche l’acqua ormai, questo è il suo terzo ricovero quest’anno.
Risultato?
Non le importa più, non c’è gioia per lei qui, me lo dice consapevolmente rassegnata, non gli interessa di vivere o morire.
“La morte, dice, non può essere peggiore di questa merda di vita!”.
I miei arrivano insieme, probabilmente i loro orari per una volta hanno coinciso.
Per lo meno stavolta hanno avuto la delicatezza di venire da soli, senza compagni al seguito.
Non sopporto i loro volti preoccupati, non sopporto più neppure le loro voci.
Li lascio parlare, rispondo a monosillabi, più per educazione che altro, guardo Simona che ridacchia in silenzio.
Mi hanno portato dei cioccolatini. Che carini! Mi sale la nausea. Per fortuna decidono di non stancarmi e dopo tredici minuti e quarantacinque secondi sono già fuori dalla stanza.
La neve si è sciolta, è bastato un po’ di sole a rovinare l’effetto inverno. Che peccato!
Il monitor di Simona fa dei suoni strani, mi avvicino ha le convulsioni.
I medici arrivano subito e mettono un separé, non vedo cosa succede, ma sento il suo cuore.
No!
Non lo sento più!
Trentaquattro minuti. Questo è il tempo in cui i medici hanno tentato di rianimarla.
Simona non c’è più.
Guardo il letto, il lenzuolo tirato sul viso e il suo corpo occupa uno spazio minuscolo.
Sarà così anche per me.
Ci sono ferite che il tempo non rimargina, ci sono parole che non si riescono a dimenticare, ma c’è un mondo là fuori, anche senza neve, che mi sta urlando di andare, di cercare, di scoprire, di amare.
Guardo i cioccolatini … almeno in questo ci hanno azzeccato!
Ne prendo uno e lo metto in bocca, mi sembra di non aver mai mangiato nulla di più buono in tutta la mia vita …. Simona … io voglio vivere!    

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