Memorial Miriam Sermoneta

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martedì 23 aprile 2013

Silvana Feola - Prima classificata sezione racconti -




La felicità di un istante


“A volte basta un attimo per scordare una vita, ma altre non basta una vita per scordare un attimo”.
Quello che vi sto per raccontare è un momento di felicità che ha avuto la durata di un attimo, ma che per intensità è stato più lungo di una vita intera. Vedete?! Non c’è poi una gran differenza tra un istante, un’esistenza e l’eternità. Tutto si confonde nel vortice del tempo.  Come un uragano si leva dal nulla e tutto cattura, muove, travolge. 
In quel tempo mio figlio aveva dieci anni e tutta una vita da vivere davanti a sé e ai suoi occhi. L’ingenuità della fanciullezza nei pensieri condivisi con la notte. Il disincanto dell’età negli sguardi rapiti dal vento. Diceva che un giorno avrebbe voluto toccare il cielo. Accarezzare l’azzurro. Abbracciare le nuvole. Volare con gli uccelli.
Christian aveva tanti sogni. E quando lo ascoltavo fantasticare, mentre la sua immaginazione correva a briglie sciolte, mi pareva davvero  che potesse arrivare ovunque volesse. Varcare ogni soglia. Superare ogni limite. Oltre la realtà. Oltre la fantasia di ogni suo sogno.
Christian aveva tanta allegria. Amava andare in bicicletta, rincorrendo le farfalle come fossero compagne di avventura. Giocare in giardino a pallone col papà, come fossero due campioni di calcio in una finale.  Mangiare le lasagne di nonna Maria, quelle con i funghi e la besciamella di cui era terribilmente goloso.
Christian aveva un amico. Il compagno di giochi più tenero e dolce che chiunque potesse desiderare. Erano cresciuti insieme, nella casa sulla collina dove ci eravamo trasferiti quando mio figlio aveva compiuto due anni. Allora, Rubino era solo un piccolo batuffolo peloso.  Christian mi ripeteva sempre che lo avrebbe portato con sé ovunque, anche in cielo a rincorrere le rondini in volo, ma senza museruola e senza guinzaglio, perché anche lui aveva diritto alla sua libertà. Christian era una bambino felice. Ma Christian aveva il cancro.
Lo scoprimmo per caso, in un freddo venerdì di ottobre, mentre le foglie secche di quell’autunno dispettoso avevano spogliato gli alberi e invaso le panchine ai bordi dei viali. La febbre non scendeva sotto 37 e mezzo. 38, 37.8 e ancora 38. Numeri, cifre e tanta paura. Visite. Prelievi. Antibiotici. Esami. 38.3 37.9 38.2. La febbre non scendeva. Restava lì a dondolare come un’altalena. A ciondolare beffarda sulla testa di mio figlio. E noi insieme a lei, nella tensione di momenti senza tempo. Quando smise di ondeggiare in quell’aria rarefatta, il responso fu crudele e terribile. Il peggiore. Leucemia fulminante.
Il tempo si fermò nell’urlo che lanciai nello studio di quel medico senza volto. Si arrestarono le ore. I minuti. Si spensero i sogni. Le speranze. Si serrarono le porte. Il futuro.  Ma ditemi voi, spiegatemi con sincerità, come possa una madre sopportare la sofferenza del proprio figlio. Come sostenere il peso dei suoi dolori dei suoi pianti. Come possa una madre rassegnarsi a vederlo morire. A lasciarlo partire per un viaggio che non avrà alcun ritorno. Nessuna madre dovrebbe sopravvivere a un figlio. E’ contro ogni regola. E’ contro natura. .
Il cancro gli stava divorando il corpo e la fine lo aspettava al varco, senza pietà, senza la minima intenzione di spostarsi nemmeno di un centimetro. Christian era in fila al negozio della vita, con il numeretto in mano per comprare un momento in più, un altro respiro.  Nulla potevo contro tutta quella ostinazione. Stringevo la mano del mio piccolo, sorridendo ai suoi occhi blu e piangendo le mie lacrime disperate mentre il sonno gli regalava un briciolo di tregua. Lo vedevo spegnersi pian piano, perché la chemio lo stava devastando. E io lì. Impotente. Incapace di aiutarlo. Lo guardavo respirare a fatica, e mi dicevo che in quel letto di sudore e sofferenza dovevo esserci io, non lui. Io dovevo soffrire. Mentre lui doveva guardare i cartoni animati e mangiare pop-corn alle feste di compleanno. Pensavo a quel maledetto termometro. 38, 38.5, 38.2.  Pensavo a quel 36 che non compariva mai. Quel 36 che avrebbe acceso un lumicino di speranza.
Ma Christian stava sempre peggio. La nostra vita era l’attesa di un miracolo che non sarebbe mai arrivato, quella di mio figlio era appesa ad una flebo, disperata e incapace quasi quanto lo ero io.
Ma un giorno dissi a me stessa, che l’anima no, il cancro non gliela avrebbe rubata e raccogliendo non so dove quelle poche forze che m’erano rimaste, decisi di fare qualcosa.
Rubino era stato sempre là. Ai piedi del suo letto. Con una dolcezza toccante. Una sensibilità disarmante. Christian lo voleva sempre accanto a sé e lui viveva accucciato fra le coperte, leccandogli la mano per ricambiare ogni carezza. Quando Christian era in ospedale, lo aspettava per giorni accanto al cancello di casa. Con la pioggia. Sotto il sole. Senza mangiare, senza guaire e nemmeno abbaiare. Accovacciato su una vecchia pantofola del mio bambino. Al suo ritorno a casa erano entrambi felici. Giocavano sul letto e quando era ora di riposare, Rubino si accucciava in silenzio, senza fiatare.
Il tempo passava, era arrivato l’inverno e dicembre si era portato dietro qualche fiocco di neve. Christian si era aggravato. 39, 38.5, 39.2  I medici ci avevano detto che oramai era questione di giorni. Era quasi Natale. Non per me, che da quell’anno non so più cosa sia il Natale. Ma per mio figlio, che era in ospedale da giorni, beh, per lui si, doveva essere Natale, perché non ne avrebbe avuto altri. Facemmo un piccolo albero nella sua stanza. Riuscimmo a prenderlo in braccio e a fargli mettere il puntale sulla cima. Ma Christian era triste. Non solo per i dolori sempre più insopportabili. Ma perché gli mancava qualcuno. Un qualcuno che lo aspettava giorno e notte e che provava la sua stessa mancanza. Un amore così grande meritava un attenzione altrettanto grande. Lo compresi quella notte, quando Christian ebbe una crisi e per qualche istante ci parve di perderlo. Il mio piccolo si riprese, era ancora lucido, ma sapevo che non c’era tempo da perdere. Meritava un attimo di felicità e io glielo dovevo regalare. 
Corsi a casa in dieci minuti. Rubino era al solito posto, sotto il portico, sempre in attesa. L’infermiera non disse nulla. Portare un cane in ospedale è vietato dal regolamento . Ma un attimo di felicità per un bambino che sta morendo non è contro alcuna norma. Appoggiammo Rubino accanto a Christian che aprì gli occhi mentre il suo amico gli faceva le feste, muovendo come un pazzo la coda. Lo accarezzò e lui gli si accucciò di lato, senza più fiatare. Stettero così fino alla fine. Un momento prima di andare mio figlio mi guardò. Non disse nulla, ma il suo sorriso valse più di mille parole. Lì ho compreso di averlo reso davvero felice, anche se solo per un attimo. Ma a volte un attimo conta più di una vita.
Ora vola, Christian. Vola con le rondini tra le nuvole e il cielo. E mentre scavo la fossa in cui Rubino riposerà tranquillo e sereno, un sorriso asciuga le lacrime che mi scendono sul viso. Perché so che il mio bambino non volerà più da solo e quell’attimo di felicità sarà la gioia dell’eterno.

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