La felicità di un
istante
“A volte basta un attimo per scordare una vita, ma altre non
basta una vita per scordare un attimo”.
Quello che vi sto per raccontare è un momento di felicità
che ha avuto la durata di un attimo, ma che per intensità è stato più lungo di
una vita intera. Vedete?! Non c’è poi una gran differenza tra un istante,
un’esistenza e l’eternità. Tutto si confonde nel vortice del tempo. Come un uragano si leva dal nulla e tutto
cattura, muove, travolge.
In quel tempo mio figlio aveva dieci anni e tutta una vita
da vivere davanti a sé e ai suoi occhi. L’ingenuità della fanciullezza nei
pensieri condivisi con la notte. Il disincanto dell’età negli sguardi rapiti
dal vento. Diceva che un giorno avrebbe voluto toccare il cielo. Accarezzare
l’azzurro. Abbracciare le nuvole. Volare con gli uccelli.
Christian aveva tanti sogni. E quando lo ascoltavo
fantasticare, mentre la sua immaginazione correva a briglie sciolte, mi pareva
davvero che potesse arrivare ovunque
volesse. Varcare ogni soglia. Superare ogni limite. Oltre la realtà. Oltre la
fantasia di ogni suo sogno.
Christian aveva tanta allegria. Amava andare in bicicletta,
rincorrendo le farfalle come fossero compagne di avventura. Giocare in giardino
a pallone col papà, come fossero due campioni di calcio in una finale. Mangiare le lasagne di nonna Maria, quelle
con i funghi e la besciamella di cui era terribilmente goloso.
Christian aveva un amico. Il compagno di giochi più tenero e
dolce che chiunque potesse desiderare. Erano cresciuti insieme, nella casa
sulla collina dove ci eravamo trasferiti quando mio figlio aveva compiuto due
anni. Allora, Rubino era solo un piccolo batuffolo peloso. Christian mi ripeteva sempre che lo avrebbe
portato con sé ovunque, anche in cielo a rincorrere le rondini in volo, ma
senza museruola e senza guinzaglio, perché anche lui aveva diritto alla sua
libertà. Christian era una bambino felice. Ma Christian aveva il cancro.
Lo scoprimmo per caso, in un freddo venerdì di ottobre,
mentre le foglie secche di quell’autunno dispettoso avevano spogliato gli
alberi e invaso le panchine ai bordi dei viali. La febbre non scendeva sotto 37
e mezzo. 38, 37.8 e ancora 38. Numeri, cifre e tanta paura. Visite. Prelievi.
Antibiotici. Esami. 38.3 37.9 38.2. La febbre non scendeva. Restava lì a
dondolare come un’altalena. A ciondolare beffarda sulla testa di mio figlio. E
noi insieme a lei, nella tensione di momenti senza tempo. Quando smise di
ondeggiare in quell’aria rarefatta, il responso fu crudele e terribile. Il
peggiore. Leucemia fulminante.
Il tempo si fermò nell’urlo che lanciai nello studio di quel
medico senza volto. Si arrestarono le ore. I minuti. Si spensero i sogni. Le
speranze. Si serrarono le porte. Il futuro.
Ma ditemi voi, spiegatemi con sincerità, come possa una madre sopportare
la sofferenza del proprio figlio. Come sostenere il peso dei suoi dolori dei
suoi pianti. Come possa una madre rassegnarsi a vederlo morire. A lasciarlo
partire per un viaggio che non avrà alcun ritorno. Nessuna madre dovrebbe
sopravvivere a un figlio. E’ contro ogni regola. E’ contro natura. .
Il cancro gli stava divorando il corpo e la fine lo
aspettava al varco, senza pietà, senza la minima intenzione di spostarsi
nemmeno di un centimetro. Christian era in fila al negozio della vita, con il
numeretto in mano per comprare un momento in più, un altro respiro. Nulla potevo contro tutta quella ostinazione.
Stringevo la mano del mio piccolo, sorridendo ai suoi occhi blu e piangendo le
mie lacrime disperate mentre il sonno gli regalava un briciolo di tregua. Lo
vedevo spegnersi pian piano, perché la chemio lo stava devastando. E io lì.
Impotente. Incapace di aiutarlo. Lo guardavo respirare a fatica, e mi dicevo
che in quel letto di sudore e sofferenza dovevo esserci io, non lui. Io dovevo
soffrire. Mentre lui doveva guardare i cartoni animati e mangiare pop-corn alle
feste di compleanno. Pensavo a quel maledetto termometro. 38, 38.5, 38.2. Pensavo a quel 36 che non compariva mai. Quel
36 che avrebbe acceso un lumicino di speranza.
Ma Christian stava sempre peggio. La nostra vita era
l’attesa di un miracolo che non sarebbe mai arrivato, quella di mio figlio era
appesa ad una flebo, disperata e incapace quasi quanto lo ero io.
Ma un giorno dissi a me stessa, che l’anima no, il cancro
non gliela avrebbe rubata e raccogliendo non so dove quelle poche forze che
m’erano rimaste, decisi di fare qualcosa.
Rubino era stato sempre là. Ai piedi del suo letto. Con una
dolcezza toccante. Una sensibilità disarmante. Christian lo voleva sempre
accanto a sé e lui viveva accucciato fra le coperte, leccandogli la mano per
ricambiare ogni carezza. Quando Christian era in ospedale, lo aspettava per
giorni accanto al cancello di casa. Con la pioggia. Sotto il sole. Senza
mangiare, senza guaire e nemmeno abbaiare. Accovacciato su una vecchia
pantofola del mio bambino. Al suo ritorno a casa erano entrambi felici.
Giocavano sul letto e quando era ora di riposare, Rubino si accucciava in
silenzio, senza fiatare.
Il tempo passava, era arrivato l’inverno e dicembre si era
portato dietro qualche fiocco di neve. Christian si era aggravato. 39, 38.5,
39.2 I medici ci avevano detto che
oramai era questione di giorni. Era quasi Natale. Non per me, che da quell’anno
non so più cosa sia il Natale. Ma per mio figlio, che era in ospedale da
giorni, beh, per lui si, doveva essere Natale, perché non ne avrebbe avuto
altri. Facemmo un piccolo albero nella sua stanza. Riuscimmo a prenderlo in
braccio e a fargli mettere il puntale sulla cima. Ma Christian era triste. Non
solo per i dolori sempre più insopportabili. Ma perché gli mancava qualcuno. Un
qualcuno che lo aspettava giorno e notte e che provava la sua stessa mancanza.
Un amore così grande meritava un attenzione altrettanto grande. Lo compresi
quella notte, quando Christian ebbe una crisi e per qualche istante ci parve di
perderlo. Il mio piccolo si riprese, era ancora lucido, ma sapevo che non c’era
tempo da perdere. Meritava un attimo di felicità e io glielo dovevo
regalare.
Corsi a casa in dieci minuti. Rubino era al solito posto,
sotto il portico, sempre in attesa. L’infermiera non disse nulla. Portare un
cane in ospedale è vietato dal regolamento . Ma un attimo di felicità per un
bambino che sta morendo non è contro alcuna norma. Appoggiammo Rubino accanto a
Christian che aprì gli occhi mentre il suo amico gli faceva le feste, muovendo
come un pazzo la coda. Lo accarezzò e lui gli si accucciò di lato, senza più
fiatare. Stettero così fino alla fine. Un momento prima di andare mio figlio mi
guardò. Non disse nulla, ma il suo sorriso valse più di mille parole. Lì ho
compreso di averlo reso davvero felice, anche se solo per un attimo. Ma a volte
un attimo conta più di una vita.
Ora vola, Christian. Vola con le rondini tra le nuvole e il
cielo. E mentre scavo la fossa in cui Rubino riposerà tranquillo e sereno, un
sorriso asciuga le lacrime che mi scendono sul viso. Perché so che il mio
bambino non volerà più da solo e quell’attimo di felicità sarà la gioia
dell’eterno.
Nessun commento:
Posta un commento